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Esmo 2025: il punto con la Professoressa Domenica Lorusso

Attraverso il commento della Professoressa Domenica Lorusso, Professore Ordinario presso Humanitas University di Rozzano e Direttore dell’Unità Operativa di Ginecologia Oncologica di Humanitas San Pio X, questo articolo ripercorre le quattro lezioni più sorprendenti emerse dall’ultimo congresso europeo di oncologia Esmo 2025.

Più farmaci non sempre significa migliori risultati: il dilemma della prima linea ovarica.

Studi ambiziosi, risultati deludenti: perché i nuovi standard di prima linea non convincono.

Nel trattamento di prima linea del tumore ovarico, due studi molto attesi hanno prodotto risultati che invitano più alla cautela che all’entusiasmo.
Il primo, lo studio ICON8, ha mostrato un dato contro-intuitivo: sebbene le pazienti trattate con taxolo settimanale abbiano vissuto in media 10 mesi in più, questo miglioramento della sopravvivenza globale (OS) non è risultato statisticamente significativo. A sorprendere è stata anche la tossicità: contrariamente alle aspettative, la somministrazione settimanale ha causato maggiori problemi di anemia e neuropatia periferica.
Il secondo, lo studio DUO-O, ha testato un’ambiziosa combinazione di cinque farmaci (chemioterapia, bevacizumab, durvalumab e olaparib). Anche in questo caso, i risultati sono stati ambivalenti: lo studio ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione (PFS), ma non ha portato alcun vantaggio in termini di sopravvivenza globale (OS). Le curve di sopravvivenza sono rimaste “appiattite”, senza mostrare una reale divergenza a favore della nuova combinazione.
La reazione della comunità scientifica è il vero punto chiave. Interrogati su questi dati, ben il 71% degli oncologi ha dichiarato di non ritenere questi studi sufficienti a cambiare la pratica clinica attuale. Questa sana cautela non è solo scetticismo, ma il risultato di un’analisi critica del disegno degli studi. Nel caso del DUO-O, ad esempio, emerge un difetto fondamentale: non avendo incluso un inibitore di PARP nel braccio di controllo pur arruolando pazienti HRD-positive, il confronto non era più adeguato agli standard attuali. Aggiungere complessità e tossicità senza un chiaro beneficio di sopravvivenza, e partendo da un confronto scientificamente debole, non è più
una strada percorribile.

L’Alba di una nuova era: gli anticorpi farmaco-coniugati (ADC) stanno cambiando tutto.

Se la prima linea ha deluso, la vera scintilla di speranza è arrivata da un’altra classe di farmaci. È stato l’ESMO degli ADC per il tumore ovarico. Un anticorpo farmaco-coniugato (ADC) può essere immaginato come un “cavallo di Troia” farmacologico: un anticorpo, progettato per riconoscere un bersaglio specifico sulle cellule tumorali, trasporta un potente chemioterapico direttamente all’interno del tumore, risparmiando il più possibile i tessuti sani. I risultati presentati per nuovi ADC (RDXD, Fontana, Napistar-01) sono stati a mio avviso “quasi commoventi”. L’entusiasmo non nasce solo dai numeri, ma dal contesto: sono stati ottenuti in pazienti con malattia platino-resistente e pesantemente pretrattate. Nello studio con RDXD, ad esempio, l’83% delle pazienti aveva già ricevuto bevacizumab e il 70% inibitori di PARP. Questa è la popolazione più difficile, quella che oggi consideriamo resistente a tutto. Ebbene, in questo setting dove la chemioterapia standard offre tassi di risposta inferiori al 10%, questi nuovi farmaci hanno mostrato percentuali di risposta superiori al 50-60%.

La portata di questo cambiamento è tale da aver ridefinito le aspettative della ricerca stessa. “Oggi studiare un ADC che dà meno del 50% di risposta vuol dire non portarlo avanti nello sviluppo. Tanto si è alzata la nostra barra.” Questo è il vero, grande segnale emerso dal congresso: per le pazienti con malattia avanzata e resistente ai trattamenti, si è aperta una nuova era di possibilità concrete.

L’Immunoterapia finalmente funziona (Ma con un grosso ‘Ma’).

Dopo una serie decennale di fallimenti che ha coinvolto oltre 10.000 pazienti, lo studio keynote-B-96 ha finalmente mostrato un dato positivo per l’immunoterapia nel tumore ovarico platino-resistente. La combinazione vincente è stata una tripletta di taxolo settimanale, bevacizumab e pembrolizumab, che ha portato a un beneficio in sopravvivenza globale di 4 mesi nelle pazienti con tumore PD-L1 positivo.

Tuttavia, questa vittoria scientifica è piena di “ma” che ne complicano l’applicazione pratica.

  1. Lo scetticismo e la mia opinione: alcuni colleghi hanno commentato che “dopo 20 studi negativi, uno prima o poi doveva risultare positivo per caso”. Io non sono d’accordo. A mio parere, qui ha funzionato la sinergia dei tre farmaci: la terapia metronomica con taxolo settimanale, l’azione anti-angiogenetica del bevacizumab e l’immunoterapia con pembrolizumab.
  2. L’alta tossicità: il trattamento non è una passeggiata. Ben il 35% delle pazienti ha dovuto interromperlo per effetti collaterali, un dato significativo in una popolazione fragile. Parte di questa tossicità potrebbe essere legata alla schedula utilizzata, che prevedeva un uso continuativo del taxolo settimanale.
  3. L’ostacolo dell’accesso: il problema più grande, almeno per l’Italia, è di natura regolatoria. Il bevacizumab, che ritengo fondamentale per l’efficacia di questa tripletta, non è rimborsabile in questo setting. Ciò rende di fatto quasi impossibile applicare questo schema terapeutico nella pratica clinica nazionale.

Questo studio è un esempio emblematico di come un risultato scientificamente positivo possa scontrarsi con la dura realtà della tollerabilità e delle regole di accesso ai farmaci.

Imparare dagli insuccessi: quando il confronto sbagliato invalida uno studio.

Non tutti gli studi positivi sono uguali: l’importanza cruciale del braccio di controllo.

Una delle lezioni più importanti da portare a casa è la necessità di analizzare criticamente non solo i risultati di un nuovo farmaco, ma anche con cosa viene confrontato. Lo studio sul tumore della cervice uterina con la combinazione chemo-free Famitinib + Camrelizumab ne è un esempio lampante.

A prima vista, lo studio è un successo: ha migliorato sia la PFS che la OS. Il problema è che quel braccio di controllo era palesemente inadeguato. Solo il 30% delle pazienti nel gruppo di controllo ha ricevuto il bevacizumab e nessuna ha ricevuto l’immunoterapia. Oggi, il vero standard di cura da battere è la combinazione di chemio, bevacizumab e immunoterapia, che ha fissato le soglie a circa 12 mesi di PFS e 34 mesi di OS. Un confronto onesto avrebbe dovuto usare questo metro di paragone.

Inoltre, lo studio ci insegna che “chemo-free” non significa “toxicity-free”. Se la tossicità ematologica era inferiore, tutta la tossicità non ematologica (diarrea, perdita di appetito, ipertensione) era devastante nel braccio sperimentale, portando a un raddoppiamento delle interruzioni del trattamento. Similmente, lo studio ATTEND sul tumore dell’endometrio ha prodotto risultati deludenti con l’atezolizumab, sollevando un’altra domanda cruciale: possiamo davvero considerare tutti i farmaci della stessa classe (anti-PD1 vs anti-PD-L1) come perfettamente intercambiabili? Probabilmente no.

Conclusione: cosa portiamo a casa?

L’ESMO di quest’anno non ci ha consegnato rivoluzioni pronte all’uso per i tumori ginecologici, ma lezioni preziose. Ci ha insegnato la cautela verso combinazioni sempre più complesse che non si traducono in un reale allungamento della vita, ha acceso un faro di speranza con l’enorme potenziale degli ADC e, soprattutto, ci ha ricordato l’importanza di un’analisi critica e spassionata dei dati, guardando sempre con attenzione al braccio di controllo di uno studio.

Questo ci lascia con una domanda fondamentale per il futuro dell’oncologia. In un’era di terapie sempre più complesse e costose, come decidiamo cosa rappresenta un vero progresso per le pazienti e cosa è solo un flebile segnale statistico?

Si ringrazia per il commento la Professoressa Domenica Lorusso, Professore Ordinario presso Humanitas University di Rozzano e Direttore dell’Unità Operativa di Ginecologia Oncologica di Humanitas San Pio X.

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