Mancano pochi giorni alla partenza per la Turchia. Voglio portare la mamma al mare. Da un mese – forse più – ho un addome duro e gonfio. Quando mi guardo allo specchio sembro quasi incinta. Mi dicono – medico compreso – che sto passando un momento molto difficile e che il mio fisico ne risente. Da un anno vivo da sola e fatico a trovare un nuovo equilibrio. Sono in terapia e prendo moderate dosi di psicofarmaci. Un deserto personale da attraversare a 55 anni.
L’unica ad insistere che la “pancia non è normale” è mia madre. Mi sento fiacca, non so come affrontare il viaggio, le valigie, la mamma con i suoi problemi di schiena. Un pomeriggio mi presento alla guardia medica – passo al pronto soccorso – in tarda serata ricevo l’ultima visita da parte di due ginecologhe appena uscite dalla sala parto. Il tumore che vedono è così grande che non si riesce a inquadrare bene. Passo la notte in ospedale.
Segue una TAC che conferma la presenza di una massa grande come un pallone da pallavolo. La dimensione fa pensare a un tumore benigno. L’intervento segue in tempi stretti. Dopo una settimana e mezza ricevo una telefonata dal medico che mi ha operata. Ha tra le mani il referto del patologo: carcinoma ovarico bilaterale a cellule chiare. Percepisco il suo dispiacere. Per fortuna non comprendo bene la gravità della situazione. Voglio fidarmi dei medici e non mi documento su Internet. Segue un secondo intervento: laparotomia longitudinale con completamento mediante isterectomia, annessiectomia sinistra, appendicectomia, omentectomia, resezione peritoneo nella regione pelvica e para-aortica.
Atre due settimane di attesa. Una giovane ginecologa legge il referto definitivo insieme a me. Ho una fortuna immensa. Nessun contagio. Una sentenza di vita. In tutto questo tempo scopro la bellezza della solidarietà e dell’amore. Gli amici e tutte le donne che incontro in ospedale e dopo. All’inizio le altre pazienti. Tutte straniere. A volte non ci comprendiamo ma ci capiamo. L’ingegnere aeronautico russo che sorveglia i miei fiori durante un weekend passato in libera uscita, l’anziana donna albanese che ha più grinta di tutte noi messe insieme. La chiamo “cucu” perché lo dice spesso e scopro solo più tardi che in albanese è un intercalare che sta tra il lamento e l’auto-incoraggiamento. Una donna croata che conosce solo lavoro e sacrificio per garantire ai figli un benessere che lei non si concede. Una guerriera. La donna bosniaca che pulisce la nostra stanza. La prima persona che vediamo al mattino dopo le notti interminabili. Insieme contiamo le giornate che mancano alla sua tanto attesa vacanza. Conosce tante lingue e spesso traduce per le infermiere. Già, le infermiere. Ci regalano sorrisi e consigli. Mi cacciano dal letto e mi fanno camminare. Torno in Italia per la chemioterapia. Sono disorientata. Mi aiuta un’amica che ho conosciuta quando si curava da un tumore al seno. Mi mette in contatto con l’associazione LOTO.
Ricordo il primo incontro con Manuela, la sensazione di essere entrata in una sorta di famiglia. Mi sembrano degli angeli custodi. Sanno che cosa stai passando, sanno di cosa hai bisogno e cercano di offrirti tante modalità di sostegno portate avanti grazie ad altri angeli custodi. Parrucchieri e estetiste che mi truccano e mi radono i capelli dopo la prima chemio. Terapeuti che ti fanno sentire il benessere che può dare l’ascolto della musica classica. Arrivano trafelati da viaggi stressanti in macchina. Per te hanno passato tanto tempo nel traffico.
Si sono portati dietro strumenti pesanti e ingombranti. Per te hanno passato ore a raccogliere fondi, per tessere cooperazioni, per organizzare eventi informativi. Dopo sei cicli di chemioterapia sono considerata guarita. Devo seguire le visite di controllo, vivere una vita sana, muovermi. Di nuovo a farmi coraggio è una di loro. Non sono più la stessa donna di prima. Ogni tanto mi chiedo che cosa sono ora, in menopausa forzata, senza capelli e con un fisico segnato.
È importante sentire dalle labbra di chi ci è passato che tutto quello che provi è normale. Con immensa pazienza ti insegnano che ci vuole sì impegno, ma soprattutto un rapporto d’amore con il proprio corpo. Non va spronato, ma ascoltato, aiutato e ringraziato. Non credo nella contabilità del dare e dell’avere. Non so chi l’ha detto, ma condivido il pensiero di fondo: quando lasceremo questa terrà dovremmo aver dato più di quanto abbiamo preso. Uno strumento che mi aiuta a calcolare la rotta che cercherò di seguire nel mio viaggio.
Sat Nam